Deus Absconditus

di Rita Cedrini

Raccontare il percorso di un’artista è sempre un atto di arroganza perché l’arte entra in rapporto dialogico con l’osservatore e recita un copione che non è mai lo stesso. L’immagine, infatti, nella sua fisicità è carica di una dinamicità interpretativa che si coniuga con gli stati d’animo, le ideologie, la formazione culturale, la capacità di cogliere la sensibilità dell’artista nell’attuazione di un processo comunicativo che traduce il messaggio dal mittente al ricevente.

Nel caso di Vincenzo Muratore la decodifica è particolarmente ardua per la complessa articolazione che si compie dal progetto alla sua realizzazione in cui l’obiettivo è teso a sintetizzare la lezione di maestri del calibro di Etty Hillesum, R.M. Rike, T. de Chardin, P. Mazzolari, D.M. Turoldo. M. Fox, V. Mancuso, P. Florensky, M. Guzzi. Maestri che con la loro lezione hanno segnato un secolo.

Il tema si coglie nell’immediatezza dell’insieme: il sacro tra noi, dentro di noi, fuori di noi, sopra di noi, nella recita quotidiana di dolore e amore, di sofferenza e gioia. In altre parole nel grande mistero della vita che consegna attraverso l’arte lo snodarsi di tappe, dove la trinità (Dio) si disvela perché l’umanità possa cogliere delle diverse entità il sublime nel dono di se stesso, attraverso la creazione prima, la parola poi, e infine il sacrificio supremo che regala la gloria divina. Dio nascosto si rende palese, eppure il buio del cuore acceca gli uomini che però lo cercano, lo interrogano quando la passione divina si fa umana nella via crucis della crudeltà, del disprezzo della dignità della vita. Nella storia dove era Dio, si chiede Vincenzo Muratore, perché è stato a guardare quando il potere ha accecato la mente e inferocito i cuori? Il regalo del libero arbitrio ha reso l’uomo responsabile del suo comportamento, ma al contempo esecutore feroce di nefandezze che gridano vendetta al cospetto dell’Altissimo.

Perché il percorso espositivo possa comprendersi è necessario vedere dove si è avviato, poi maturato e, infine, espresso: quel percorso, che è viaggio, divenuto racconto di genesi e odissea, di miracolo inenarrabile e compiuto sacrificio.

Deus Absconditus si articola in nove sezioni, ognuna delle quali scava e analizza un particolare aspetto della ricerca che fa dell’artista viandante sperduto nel desiderio della luce divina.

Il viaggio si apre con la Via sezione dedicata all’arte, dove il quesito che si pone – il ruolo dell’artista nella società contemporanea – è l’incipit di un cammino interiore, di un viaggio spirituale. Prosegue nella tappa successiva Dovunque che porta l’osservatore a riprendere contatti con i capisaldi del racconto biblico, quelle ieratiche figure che hanno guadato incuriosite oltre il tempo della storia.

Nell’Ascolto il sacro sussurro dell’angelo trasforma il verbo divino in sostanza umana che nell’ineffabile mistero rimane plasmata di divinità. Ineffabile mistero che supera i confini della conoscenza perché se l’uomo avesse potuto saper tutto “non era necessario partorir Maria” ricorda il Poeta.

La voce ascoltata non basta a trovare la strada. Se diventa sussulto interiore che entra nei meandri più profondi del desiderio della conoscenza rivela i sentieri che portano a Dio. E’ Dentro che la conoscenza si fa amore, che è impegno.

“Chi mi ama prenda la sua croce e mi segua”, dice Cristo. Comincia Passio. La croce di ogni uomo è fardello pesante per le forze umane, anche se si volge lo sguardo alla lunga via crucis divina. Eppure ogni uomo la porta proprio con la disperata forza che dà quel legno divino, perché la luce è chiarore nel buio delle tenebre, è speranza nell’ambascia della disperazione. Ed è qui che avviene l’Incontro: dopo la caduta una mano invisibile offre il sostegno e si ricomincia a vivere. Sentirsi vivi, rinati nell’approccio alla vita è un dono che esalta, che restituisce vigore e pace non tanto con gli altri ma con se stessi. E la luce, fatta presenza interiore, compie il miracolo di ritrovare il dialogo con Dio, di tornare a vivere il tempo con Dio. La mistica della creazione realizza in un microcosmo umano il grande atto divino, nella ciclicità del tempo sacro che da origine alle stagioni della vita. La pace e la scoperta di sé esita in un Inno alla terra. Nel tempio vilipeso dal nostro passaggio si scopre l’armonia che in esso è racchiusa. Il sottile filo d’erba che trema nel vento e la grande quercia sconquassata dalla tempesta sono l’infinitamente piccolo e il macroscopicamente grande che racchiudono lo stesso mistero della vita che non conosce aggettivi, perchè ogni cosa che vive è Natura disvelata, è creazione irripetibile del mondo. Inno alla terra è omaggio che l’artista regala a T.de Chardin.

Se l’irripetibilità di ogni vita è sacralità non solo dell’atto creativo ma della sostanza, come è potuto accadere che qualcuno si sia arrogato il diritto di disporre della vita altrui e immolare innocenti e consapevoli agnelli alla vanità di progetti carichi di finitezza umana? L’altare sanguinante grida Absconditus. Le nostre coscienze chinano il capo, sgomente e disarmate di fronte all’incapacità di essere uomini: uomini immagine di Dio abiurata, oltraggiata, rinnegata, vilipesa.

Deve pur esserci una speranza nella notte della ragione. Respiri regala all’uomo la possibilità di riconciliarsi con Dio nella vertigine creativa che gli regala la capacità di realizzare, pur con la sua finitezza, opere a gloria di Dio: opere che recitano le poesie dell’estetica, meravigliano nell’equilibrio costruttivo, dialogano con i linguaggi dell’arte alla creazione di un mondo dove solo la bellezza, emanazione divina, salverà il mondo. Macerie, rovine oltraggiate, diventano tabernacolo per innalzarsi verso il Dio creatore e cantare la sua gloria: Chiesa Trinità della Pace Nuova, Passaggio della Consolazione, Eremo Blu della Pace.

Rita Cedrini

Multiverso

Non conoscevo Vincenzo, ora lo chiamo così, ma ho colmato recentemente  questa lacuna.
Un passo indietro.
Se si volesse avere contezza del panorama artistico contemporaneo si rischierebbe si dovere fare uno sforzo immane, ove non impossibile,  e superfluo al contempo.
Wharola fu profetico nel ritenere  che pochi minuti di celebrità  non sarebbero  stati negati a nessuno nell’arte contemporanea.

Eppure essi non sono neanche sufficienti a ricordare il nome del “fortunato” di turno.

Ho avuto, invece, la possibilità di conoscere Vincenzo Muratore per più di 15 minuti e mi si e’ dischiuso un multiverso di immagini.
Personalità poliedrica, insofferente a saperi settoriali, Vincenzo ha inscenato il suo personale dramma attraverso  materiali eterogenei che hanno in comune la propria percezione della vita e la sua catarsi.
Laici eppur religiosi, comuni, eppur straordinari, sono le figure che V.M. mutua dall’arte sacra per sposare una religione universale senza contrapposizioni. Tutti soffrono tutti anelano, tutti si elevano, senza distinzione di sorta. Queste sembrano le 2 direzioni degli sguardi delle opere scultoree o pittoriche di V. M. uomini e donne che guardano ora verso il basso ora verso l’alto.
A ricordarci l’universale condizione umana e’ ancora una volta l’arte nella sua forma più  elevata. Quella grande che non ti aspetti da un giovane che vive in comunione con Dio ed i suoi fratelli una esperienza artistica che non fa la notizia del male ma sedimenta, una volta conosciuta, come solo il bene sa fare e rimane indelebile.
Nella storia “tout court” l’arte ha vissuto in simbiosi con gli uomini solo nei momenti più  alti ed ha sofferto nei momenti più  difficili, quelli più  creativi. In questi ultimi, come l’attuale, uomini come V.M. si sentono chiamati ad adempiere un compito che non tutti possono adempiere. La loro missione e’ fare il viaggio più  pericoloso, difficile e talora doloroso, quello verso se stessi. Conoscendosi possono conoscere gli altri.
Perdonandosi pure. Innalzandosi innanzitutto.
Un messaggio quanto mai attuale, si snoda,  senza esibizionismi, nella confessione artistica di V.M. Per la scultura le sue bellissime statue sono personaggi sofferenti,  cui e’ inciso il dolore visibile attraverso le soprattutto bellissime rugosità. Non e’ mero esercizio stilistico: lasciare incompiuto il lavoro, perché  esso e’ compiuto, come il suo significato solo attraverso le sue ferite che danno il senso ultimo e, finanche, primo all’opera d’arte.
Eguale bellezza si può  vedere nella sua pittura. I colori, spregiudicatamente timbrici, sono legati al doppio filo con l’urlo muto di dolore e speranza che trasuda dalle dita tese ad afferrare della vita, non la superficie ma, quel mistero che ne e’ il senso ultimo, cui soprattutto uomini eletti possono avvicinarsi, gli Artisti.

Quindi, altro che filosofia o astronomia,  non manca nulla, basta seguire Vincenzo Muratore  per più  di 15 minuti e ci si svelerà un “multiverso”.

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